• 2018_09 - Vo[i]ler couleur, Museo d'Arte Contemporanea, Città di Lissone

Antonio Scaccabarozzi: il valore della pittura

 Gabi Scardi

 

Il lavoro di Antonio Scaccabarozzi è frutto di una pratica rigorosa, basata su una grande padronanza, su una concezione intima del fare arte, su un’elaborazione incessante, che ha il senso di un’inesausta indagine sulla natura e sulle potenzialità dei linguaggi visivi. Assunta la postura del pittore come una forma di impegno personale, e lo spazio definito della tela come ambito di intervento, l’esigenza di Scaccabarozzi è, dapprima, di affrontare una serie di interrogativi riguardanti l’esperienza artistica: quale valore può avere oggi la pittura? Quali i suoi elementi costitutivi? Quali il ruolo e l’identità dell’artista? Per farlo egli si spinge al di là della mediazione costituita dalla rappresentazione e dalle convenzioni pittoriche. In reazione a un informale considerato spontaneo e soggettivo, quindi arbitrario, e come antidoto a ogni maniera, sceglie, in sintonia con la temperie culturale del periodo, di sfrondare l’opera del suo tradizionale bagaglio espressivo, evocativo, drammatico, e di operare in termini scientifici sulla base di un’analisi delle componenti fondamentali dell’arte: il supporto, il punto, la linea, il colore, le materie e la loro natura, la superficie e la sua possibilità di essere modificata. I titoli stessi delle sue opere, espliciti e sintetici, rientrano in questa riflessione. Durante la sua prima fase di attività, le opere nascono da una precisa, intransigente programmaticità. In particolare, Scaccabarozzi è interessato al rapporto tra quantità e qualità dei materiali utilizzati, e al loro effetto sulla superficie. L’investigazione si svolge quindi in termini di metodo, di misurazione, di sistemi razionalmente ordinati. Egli comincia con l’adottare un metodo operativo “verificabile”, basato su precise autoprescrizioni, a partire dalle quali, senza più ingerenze, l’opera si farà, come un fenomeno, all’interno di quel sistema spaziale che è il quadro.

   Nelle sue prime serie il punto viene assunto come nucleo germinativo della struttura del quadro.
Le Superfici modulate, i Fustellati e poi le Prevalenze, con le loro sequenze di punti, dapprima in rilievo, poi dipinti, che scandiscono e cadenzano lo spazio di un piano omogeneo, sono tra le prime declinazioni di questa forma di indagine.D’altra parte, già in questa fase, il rapporto tra progetto ed esito non è scontato. Il processo di realizzazione delle opere è aperto, e malgrado la dichiarata scientificità, il programma è destinato a essere superato dalla contingenza e dall’imprevisto legati alle condizioni dell’esecuzione e della fruizione.

   Successivamente, a partire dalla fine degli anni Settanta e sempre più nell’arco degli anni Ottanta, Scaccabarozzi metterà in gioco il rapporto tra quantità e qualità in modo meno rigido, facendo ancora riferimento a pesi e volumi, limiti e confini, ma con soluzioni formali più variegate: basti pensare, solo per fare un esempio, a opere come la Delimitazione di cm3 di acqua, del 1980, o come le Iniezioni (1980), con Iniezione-Delimitazione, del 1980-1981.
O alle Quantità, che nascono proprio da questioni legate al rapporto tra quantità e qualità di colore-materia, o tra il volume liquido del materiale pittorico e la quantità di superficie occupata. Ma le soluzioni formali variano, e possono anche sottendere rimandi autobiografici e una certa leggerezza nei riferimenti; com’è il caso di Acquerello e Acquerello (1983).

   A partire da questi presupposti concettuali, la sua pratica si andrà sviluppando negli anni successivi, per variazioni e integrazioni. L’esigenza di misurare e quantificare resta centrale pure quando dalla superficie bidimensionale si passa alla dimensione spaziale. Anche in questo frangente, a interessarlo non è lo spazio illusorio della rappresentazione prospettica, ma quello reale, che egli trasforma ribaltando il quadro, e moltiplicandolo; lo spazio dell’opera si espande fino ad assumere dimensioni abitabili, e viceversa, l’ambiente si fa quadro. È il caso di Ambiguità dellAngolo (1978) presso la Galleria Lorenzelli di Bergamo; o di Misurazione della Galleria Ferrari (Verona, 1978); dove a contare è la possibilità di misurare lo spazio, a partire da uno specifico punto di vista, che nella fattispecie è quello dell’artista stesso. Qui Scaccabarozzi traccia infatti una linea d’orizzonte alla propria altezza. O ancora in 25 Riferimenti, 1994, Sala Civica di Merate, in cui, con un acrilico materico, egli porta il piano orizzontale in verticale ricostruendo il pavimento sulla parete.

   Negli anni successivi l’artista realizza una serie di opere che resteranno centrali nel suo percorso, le Quantità o Quantità su polietilene. Si tratta di pitture realizzate con grandi pennellate, su una base di polietilene trasparente. Le loro caratteristiche fondamentali sono evidenza, ritmo e inclinazione. I bordi dei dipinti saranno all’inizio lineari e conclusi, poi, progressivamente, si scioglieranno prendendo l’andamento delle pennellate stesse su uno, su due, su tre e infine sui quattro lati: gradualmente Scaccabarozzi sta cercando di sconfinare dalle geometrie, di allentare la regola. Pur mantenendosi all’interno di un rapporto fortemente progettuale con l’opera, egli cerca ora di verificare la permeabilità di quei codici e di quei limiti a lungo testati. Del resto, della pretesa scientificità messa in campo nel processo di quantificazione, per paradosso, ha sempre riconosciuto i limiti e l’arbitrarietà. Gli è chiaro che, ad onta del rigore del metodo, l’arte avviene sempre nella tensione tra la programmazione e l’accidente. Anzi, proprio da questa relazione il suo metodo trae necessità. Per questo motivo non comporta mai un senso di rigidità o di alienazione; semmai di grande concentrazione.
La pittura è intesa evidentemente come metodo per riflettere sulla realtà. A conferma di ciò, nel 1987 l’artista realizza, tra l’altro, alcune pitture su fogli di giornale: le pennellate si confrontano così direttamente con il sistema dell’informazione, poco misurabile per antonomasia, e caratterizzato invece da attualità, velocità, rapida obsolescenza.

   Di lì a poco – siamo all’inizio degli anni Novanta – nasceranno gli Essenziali.
Qui il supporto scompare. Della pittura restano quelle caratteristiche di colore, ritmo e inclinazione che erano nelle Quantità.
L’opera è infatti costituita da ampie pennellate oblique, esatte, e potenti. Sopra ogni cosa, in queste opere, ci sono la tensione, il dinamismo di un gesto interrotto, bloccato nel pieno del fare.
Immagine, materiale ed energia sono letteralmente tutt’uno. La pittura si fa completamente autonoma. Scaccabarozzi asserisce così, ancora una volta, che essa si realizza in se stessa; e può essere, in sé, autoevidente e assoluta.

   In questo periodo le componenti logiche e teoriche, sempre presenti nel suo lavoro, coincidono più che mai perfettamente con il fare.
Un esito tra i più radicali del suo intero percorso si realizza con i Polietileni. Se, sino a quel momento, del polietilene interessava la trasparenza, che rendendolo quasi impercettibile ne faceva una base su cui lavorare per far risaltare la pittura nella sua autonomia, ora proprio il segno e la pennellata sono esclusi. Resta il materiale che, spogliato di tutto, acquista valore in sé.

   Il polietilene è un materiale modesto, ordinario, extra-pittorico: di origine industriale, palesemente sintetico. È dotato di scarse proprietà espressive; monocromo, neutro; di una neutralità che Scaccabarozzi, come altri artisti affini per ambito di ricerca, invoca sin dall’inizio del proprio percorso. Tende ad essere valutato sempre e solo in termini di utilità; del resto l’artista stesso lo aveva utilizzato, in passato, come supporto. Allo stesso tempo è moderno; rappresenta il mondo che si evolve e stili di vita che si trasformano.
Ora Scaccabarozzi lo propone come opera a sé stante; nella sua immediatezza. Senza insistenza. Ma scoprendone, nello stesso tempo, la sensibilità, la diafana leggerezza, il carattere responsivo. Lo espone nei colori ordinari, che si trovano sul mercato; in forme semplici, di quadro, appena puntato alla parete. Nelle versioni opache o traslucide. A volte con punzonature, o con degli intagli lineari. Ne sovrappone due strati di colori diversi, uno dei quali celato allo sguardo, se non quando un movimento genera fluttuazioni, come nelle Ekleipsis; o leggermente distanziato dalla parete in modo da generare un’ombra, come nelle Banchise.
Proprio in ragione della loro assoluta sobrietà, queste opere sono pronte ad accogliere le infinite possibilità di una realtà che è transitoria e si rinnova continuamente. Sensibili a ogni possibilità, esse reagiscono al passaggio della luce, al movimento, al minimo spostamento d’aria generato dal passo di un visitatore.
Così facendo si misurano con il contingente.

   Nei Polietileni, inoltre, Scaccabarozzi lascia sistematicamente in evidenza le linee delle pieghe; che evocano l’estetica degli oggetti d’uso quotidiano di cui questo materiale fa parte; come a dire che anche mantenendosi in un regime di massima economia dei materiali e dei mezzi usati è possibile risvegliare nuove abitudini percettive. Né si può escludere che in questa scelta si celi un riferimento alla cultura umanistica e rinascimentale, dove il tema della piega è sempre presente: le pieghe delle tovaglie distese sulla tavola delle ultime cene rinascimentali ne sono solo un esempio.
Nello stesso tempo generano, sulla superficie, una serie di pur minimi volumi, di estroflessioni, introflessioni. Da bidimensionale l’opera diventa plastica, e si arricchisce d’increspature e di ombreggiature. Non solo: pur sottraendosi, ancora una volta, a ogni carattere esornativo, la griglia che si viene così a configurare traccia una partitura ed evoca da un lato una ricerca di equilibrio interno allo spazio del quadro, dall’altro il tema del limite, dell’interno e dell’esterno che, come già visto, sono costantemente al centro dell’attenzione.           

Se nei Polietileni l’artista raggiunge sintesi e immediatezza estreme, con il materiale che funge insieme da supporto, da superficie, da tavolozza cromatica, il tema del confine e insieme il carattere di diaframma aereo, vibratile, sensibile alla luce e al movimento si fanno ancora più evidenti in alcune opere di dimensioni ambientali, le Trasparenze. L’artista ne realizza diverse versioni; alcune delle quali installate in studio, per esempio Corridoio (2001), in cui un velo di polietilene trasparente e lattiginoso fa da cortina lasciando trasparire un Polietilene più piccolo, azzurro, collocato in posizione più arretrata, che viene allestita in diversi contesti, da Bonn a Edimburgo, ogni volta variando la relazione tra installazione e spazio. Altre solo progettate, e ne restano i meticolosi disegni. Tutte queste opere prevedono che dietro il primo strato, semitrasparente, appaiano uno, due, o anche tre Polietileni colorati.

Quantità di blu, inchiostro blu su polietilene trasparente, 1983  29x94 cm

         

   Nei Polietileni significato e presenza sono tutt’uno, e sintesi e precisione sono elementi dominanti. In queste installazioni, invece, il carattere evocativo è forte. Si tratta di opere ineffabili, di forte carica poetica, che generano un senso di lontananza, fisica e temporale, in cui le coordinate si affievoliscono e trasparenza, velature, stratificazione, sequenze di piani non fanno che evidenziare il sensibile, l’inafferrabile, la cosa che sfugge.

   Il percorso, rispetto alle Prevalenze degli anni Settanta, è stato lungo. La questione del limite, del confine, del vicino del lontano e dell’attraverso viene resa quanto mai esplicita dall’artista nei Cancelletti, nelle Barriere, in opere con titoli quali Di Qua e di Là: opere la cui elaborazione avviene negli stessi anni in cui si sviluppano le Trasparenze. Si tratta di griglie realizzate in polietilene, destinate talvolta ad essere sospese tra due pareti, fungendo da diaframma o da linee di confine. Griglie che tracciano una separazione e nello stesso tempo istituiscono un collegamento. Cosa significa essere di qua o di là? Quale scarto nella percezione può generare? Tra gli appunti di Scaccabarozzi, si trovano numerosi riferimenti al tema dei filtri che interferiscono con lo sguardo. «Sto guardando in giardino da una finestra [...]», scrive l’artista nel 1999: il testo, riportato in questo catalogo, non potrebbe essere più preciso e illuminante. 
Il pensiero è nitido. E poetico.
Per l’artista l’iter di una vita si svolge all’interno dell’opera, che è sede di equilibri e di tensioni; tra questioni da sempre inerenti alla storia della visione, e della pittura. Questioni riguardanti la veduta, la prospettiva, la lontananza, la stratificazione, la velatura.

   Ciononostante il suo lavoro è un processo che sempre più si apre alla possibilità, in cui nulla è scontato, in cui anzi giocano un ruolo decisivo le fluttuazioni, il non previsto, l’improbabile. Di fatto, a contare è, anzitutto, il rapporto tra progetto ed esito, tra l’intenzione e la realtà, un rapporto che procede per via di ininterrotte sperimentazioni. Il rapporto di Antonio Scaccabarozzi con l’opera è sì fortemente progettuale, ma anche attivo, critico, lirico.

   Il ciclo di opere con cui l’esperienza dell’artista si chiude scaturisce da un desiderio di recuperare la tecnica della pittura; condensandovi, però, tutte le riflessioni precedenti.
Ecco le Velature, con i loro tanti strati sovrapposti.
Vi si ritrovano l’assoluta concentrazione, la grande tenuta abbinata all’estrema economia dei materiali e alla sobrietà dei mezzi.
I riferimenti biografici – ai cieli rappresentati dallo zio pittore – che però restano impliciti e si fanno concetto: ancora una volta l’impegno artistico è inteso al di là di qualsiasi compromesso.
La riflessione sui veli e sui diaframmi attraverso i quali, immancabilmente, la realtà viene percepita dall’individuo, che è al centro di queste ultime opere, ma che è anche stata una delle costanti del suo percorso, è sempre, comunque, legata a una meditazione sulla vita. Una meditazione che non ha perso attualità.

 

 

L'esilio della cornice, l'essenziale della pittura 

Alberto Zanchetta

 

   A detta di Ronald L. Hall ogni arte è astratta per via della sua cornice. Isolando l’opera dal tempo storico e dalla realtà fenomenica, la cornice esclude tutto quanto si trova al di fuori di sé. La “chiusura” rispetto all’ambiente circostante presuppone un confine destinato ad accentrare l’attenzione sul dipinto: lo sguardo viene trattenuto al suo interno, evitando ogni dispersione o distrazione.

   I pittori dell’antichità erano soliti ornare i propri dipinti con una cornice dorata che sopperiva a esigenze pratiche ancor più che esornative. La porporina si accostava molto dolcemente con i colori dell’opera, garantendo al quadro di non mescolarsi con la luce degli oggetti che lo circondavano. Per usare le parole di Ortega y Gasset, la cornice dorata immetteva «tra il quadro e il suo ambito reale una cintura di splendore»1. Toccherà agli intransigenti impressionisti il compito di abolire le tradizionali bordature, introducendo al loro posto delle cornici bianche, scelta che venne schernita molto aspramente dal pubblico mentre Felix Fénéon la incensò con particolare enfasi. Lo stesso Fénéon – così come farà Georg Simmel qualche anno più tardi – disapprovava tutti quegli artisti che decoravano le cornici per farne un prolungamento dell’opera; eppure, in quel volgere di secolo nessuno poteva immaginare che di lì a breve la cornice sarebbe stata messa al bando. Quando al MoMA venne ordinata la retrospettiva dedicata a Claude Monet, William C. Seitz decise di rimuovere le cornici di alcuni quadri: «all’inizio le tele messe a nudo sembrarono delle riproduzioni, finché non ci si rese conto di quanto dominassero la parete. Benché non privo di stravaganze, l’allestimento interpretava correttamente il rapporto tra i dipinti e la parete e, con un raro atto di audacia curatoriale, ne seguiva le implicazioni»2. L’esposizione, inaugurata nel marzo del 1960, sarebbe stata foriera di un decennio insofferente all’autorialità della cornice che per secoli aveva preservato l’integrità dell’opera, sancendo il luogo dove si dava il valore del proprio contenuto: la pittura. Erosa la soglia che separava l’opera d’arte dal resto del mondo, il campo pittorico poteva finalmente deflagrare nella sfera del quotidiano. Tuttavia, l’obiettivo non era quello di sovrapporsi alla realtà ma di riavvicinarsi ad essa – una realtà autoreferenziale, non illusionistica, sgravata da escamotage e alibi sovrastrutturali.

   Oltre a una comprovata ripulsa nei confronti delle cornici, negli anni Sessanta si avverte un’altrettanto impellente desiderio di smantellare il telaio del quadro. Artisti come Michel Parmentier, Claude Viallat, Patrick Saytour e Giorgio Griffa decidono infatti di abolire lo spessore del dipinto; se effettivamente il quadro non è altro che “colore applicato su un supporto”, tale supporto deve rendere manifesta la propria superficie bidimensionale (fissate direttamente alle pareti, le tele vengono finalmente liberate dalle costrizioni del telaio in legno). A quella stessa generazione appartiene anche Antonio Scaccabarozzi, il quale perverrà agli stessi esiti con il ciclo delle Quantità libere.

   Tra i tanti assiomi che ci ha lasciato in eredità, Henri Matisse sosteneva che 10 cm2 di blu sono meno blu di 1 m2 di blu. Osservando le Quantità di Scaccabarozzi viene spontaneo chiedersi perché mai una superficie gialla dovrebbe avere le stesse dimensioni di una dipinta di viola oppure di verde? Scaccabarozzi non era interessato a elaborare una teoria del colore; tenendosi a debita distanza dalla filosofia, il suo ambito di ricerca restava confinato nella fisiologia. Lambiccandosi sulla grammatica e l’ambiguità della visione, egli si preoccupava di affinare lo sguardo e di perfezionare la propria ricerca, quel procedimento – da non confondersi con un metodo, come giustamente aveva notato Flaminio Gualdoni – che iniziava con l’analisi e si risolveva nella sintesi. La pittura veniva da lui assunta come strumento di investigazione che penetra sempre più in profondità, culminando in una verifica oggettiva anziché in una ipotetica verità o in una velleità artistica. Benché i suoi laconici titoli esprimano un truismo che l’opera è tenuta a dimostrare, il loro valore nominale corrisponde a una pratica deduttiva: minando i modelli artistici ormai riconosciuti e istituzionalizzati, le opere dell’artista non sono mai dei postulati ma delle proposizioni empiriche, ossia delle esperienze maturate all’interno della sintassi pittorica.

   Scaccabarozzi era solito interrogarsi sulla discrepanza tra un fenomeno osservabile e la percezione che se ne ricavava. L’ampia gamma delle sue sperimentazioni, che a un occhio inesperto possono sembrare assai difformi e persino contraddittorie, verte inevitabilmente sul rapporto – e quindi sulla validità – che vincola l’artefice al proprio artefatto. «Non c’è vera arte senza consapevolezza», sentenziava Oscar Wilde, «e consapevolezza e spirito critico sono la stessa cosa»3. Allo stesso modo, per Alexander Archipenko «il mistero della creatività di un individuo rimane nel suo codice genetico e raramente affiora alla coscienza se non è aiutato dalla saggezza e da un’istintiva capacità di autoanalisi»4.

   Intollerante verso una reiterazione che rischia di sfociare in un asfittico manierismo, Scaccabarozzi ha continuato a diversificare il suo operato, conscio del fatto che non sempre si riesce a rafforzare un’idea replicandone il concetto, più spesso si rischia di banalizzarlo o persino di svilirlo. È così che, a cavallo degli anni Novanta, l’artista si cruccia di capire in che cosa consista veramente la pittura. Da dove scaturisce e a quale elemento può essere ri[con]dotta? Com’è ovvio, la sostanza della pittura è al contempo evolutiva ed involutiva: quanto più evolve nelle sue problematiche, tanto più è destinata a involvere verso costrutti elementari, dove le nozioni di “originario” e “originale” finiscono per convergere. Disancorata dalle schematiche categorie della storia dell’arte, la pittura ha sempre avuto l’ardire di spingersi fino al suo culmine invalicabile, oltre il quale tutto svanisce, dissolvendosi e perdendo di significato. Questo limite estremo e irreversibile sancisce l’essenza stessa della pittura. Tendenti alla esemplificazione e non già alla esaustività, le opere di Scaccabarozzi sono [in]formate di questa essenza.

   Compattando le tremolanti densità delle Quantità, Scaccabarozzi giunge a formulare gli Essenziali, matrici pittoriche che esistono a prescindere da un qualsivoglia supporto. Riducendo la pittura al sintagma di una pennellata energica e risoluta, l’artista distende gli acrilici per mezzo di una spatola, rinforzandone le cromie con del mastice che ne preserva la sostanza e la struttura. Il colore graduato attraverso la spatola è al contempo singolare e plurale, uno e molteplice, costante e versatile, può assumere uno sviluppo ellittico, finanche allusivo quando si estende in orizzontale, a formare delle “sottolineature”, altre volte in verticale, a simulare delle “colonne”, come nel caso della mostra allestita a Friedberg nel 1993 presso la Galerie Hoffmann. A distanza di un anno, Scaccabarozzi prende in esame un altro elemento architettonico: le grandi sagome romboidali inserite nella pavimentazione della Sala Civica del Comune di Merate che vengono replicate e poi disseminate a parete nell’installazione 25 Riferimenti. Alcuni Essenziali possono assumere la forma di uno “specchio” inclinato, oppure conformarsi agli angoli dell’ambiente espositivo, ma la querelle pittorica non si esaurisce nella semplice geometria, si sforza semmai di ridefinire il coefficiente interno dell’opera. In particolare, gli Essenziali sono un acuto ripensamento della Monochrome Malerei e hanno il merito di essere riusciti a destreggiarsi tra la tautologia e il pleonasmo. Scaccabarozzi sovverte infatti le regole e le definizioni quando decide di accentuare i bordi delle opere con delle “ombre pittoriche” o intitolando le opere per approssimazione (Questo non è nero si legge sulla didascalia di un Essenziale di colore grigio, oppure Questo non è giallo chiaro nel caso di un Essenziale di colore rosso).

   Non v’è dubbio che la pittura fosse per Scaccabarozzi un laboratorio intellettuale. Commetteremmo però un imperdonabile errore se definissimo la sua indagine concettuale anziché mentale, minimalista al posto di minimale. Per certo, osservando le sue opere si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una complessa semplicità. Ne rimaniamo affascinati, come quando si scopre qualcosa che – in apparenza – sembra così semplice e ovvio, ma a cui nessuno aveva ancora pensato. «La semplicità è la complessità stessa», aveva detto Brancusi, «ti devi nutrire della sua essenza per comprenderne il valore»5. Scaccabarozzi è riuscito a materializzare e rendere percepibile quell’essenziale che il Petit Prince di Saint-Exupéry definiva essere «invisibile agli occhi»6. Ma per arrivare al nocciolo delle cose, all’essenza, è stato necessario accettare il suo versante opposto, l’assenza, perché ogni scelta è vincolata a un sacrificio.

Essenziali, colore acrilico rosso e mastice rinforzato, 1993  235x35 cm

   Cornice, telaio e tela non erano più necessari, restava soltanto l’elemento sorgivo della pittura, quel tocco di colore energico ed espressivo che, volente o nolente, chiama in causa una manualità tardo romantico, come a voler avversare la spersonalizzazione e il disincanto della pittura, tipico degli artisti formatisi negli anni Sessanta. Ma la sfida di Scaccabarozzi non poteva dirsi conclusa prima di aver rovesciato il proprio approccio: se effettivamente la pittura si può dare senza il suo tradizionale supporto, può esistere rinunciando alla gestualità del pennello? La riflessione troverà piena conferma nel ciclo dei Polietileni, materia-colore che abbisogna solo di pochi, eleganti e intelligenti accorgimenti. A queste date si innesca quindi un rapporto inverso, quasi antitetico, tra Essenziali e Polietileni che contrappone la corposità all’inconsistenza, l’opacità alla trasparenza, la massa alla vibrazione, la stasi al movimento.

   Nella seconda metà degli anni Duemila, l’artista compirà un ultimo rivolgimento della propria praxis, portando a compimento una parabola di azzeramento che ha saputo arricchire i limiti del linguaggio pittorico. Lasciandosi alle spalle espedienti antipittorici come le Iniezioni e le Immersioni, Scaccabarozzi avvertirà l’urgenza di riscoprire una tecnica tradizionale: la velatura. Come in una spirale virtuosa, il viaggio di scoperta che l’aveva impegnato per tutta la vita non era altro che una fondamentale riscoperta della pittura.

   In questa sua costante verifica di “qualcosa che valesse la pena di conoscere”, l’artista non ha mai perso di vista il proprio soggetto/ strumento, riuscendo nell’ardua impresa di trasformare se stesso in un’emanazione-della-pittura-pura, ambizione preclusa alla maggior parte degli artisti. Pur affrontando le medesime problematiche dei suoi colleghi, Scaccabarozzi ha adottato soluzioni imprevedibili che ne hanno reinventato il registro tecnico. Anche qualora la sua ricerca rispecchi un preciso orientamento dell’arte internazionale, sarebbe troppo semplicistico equipararlo a qualche esponente della Radical Painting americana, così come agli accoliti della Pittura analitica italiana o della Geplante Malerei tedesca. A discapito di evidenti tangenze, Scaccabarozzi non è stato cooptato in nessuna di queste correnti, ha preferito intraprendere un itinerario in solitaria che a tutt’oggi ne comprova l’unicità e l’irripetibilità.

 

1 J. Ortega y Gasset, “Meditazione sulla cornice”, in I percorsi delle forme, Bruno Mondadori, Milano 1997, pp. 226-227.
2 B. O’Doherty, Inside the White Cube, Johan & Levi, Monza 2012, p. 29.
3 O. Wilde, Il critico come artista, Sugarco, Milano 1980, p. 40.

4 A. Archipenko, L’arte e l’universo, Amadeus, Montebelluna (TV) 1988, p. 68.

  


E tu che cosa fai con questa quantità? cosa vedi? cosa provi? cos’hai da aggiungere?
 

Ilaria Bignotti

In un tempio greco esiste uno spazio interno, chiuso e segreto, dove vi possono accedere in pochi: il naos.
Solo i sacerdoti vi sostano, e l’icona del dio vi abita, attendendo di disvelarsi al di fuori, nei momenti della comunione dell’uomo con il divino.

Il processo creativo, quell’itinerario periglioso e sorprendente che accompagna un artista nella realizzazione di un’opera, come un nucleo misterioso in essa si nasconde – e a pochi si rivela. È il suo naos, il luogo d’origine, l’idea generante che la determina e la abita. Qualcosa di sacro, nel senso etimologico del termine: di segreto, da secernere poco a poco, appartiene all’opera tutta di Antonio Scaccabarozzi.

Questa segretezza ne ha determinato anche un certo isolamento. Oggi, che finalmente giovani generazioni di studiosi la stanno affrontando, emerge in tutta la sua potenza una ricerca piena, complessa, sfaccettata ma non eclettica, coerente e mai pedante, meravigliata del suo stesso divenire, e pronta a meravigliarci nel suo continuo mutare: accadendo come mistero davanti ai nostri occhi, le opere di Scaccabarozzi sono fenomeni fulminanti e fulminei di un lavoro sulla pittura che non lascia fiato e non concede tregue.

E appena si pensa di avere raggiunto la soglia del naos di ogni sua opera, subito si palesa, imponente, la fierezza del suo mistero, mai del tutto rivelato.
Da qui, anche, il titolo di questa coraggiosa mostra per la quale mi trovo a scrivere – dove il gioco tra le parole unisce e distingue, accomuna e discioglie, come nelle Quantità libere di Scaccabarozzi, declinazioni di senso-colore finalizzate a un’analisi puntualissima e incalzante: il problema dell’esperienza visiva dell’opera, come riscoperta e percorso à rebours nel suo processo di germinazione e formazione: Vo(i)ler Couleur.

Un titolo che puntualmente descrive un trentennio davvero straordinario, dall’inizio degli anni Ottanta al nuovo Millennio, dove Scaccabarozzi, maturata una riflessione individuale e puntuale, approda a tipologie di lavoro di una contemporaneità disarmante.

Dalle citate Quantità libere, dove il colore si estende in pennellate più o meno larghe su fogli di polietilene trasparente – ma anche su carta e su tela – ai lavori della seconda metà degli anni Novanta, dove il foglio di polietilene è autonomo: medium, supporto e campo del visibile, luogo di esperienza e di espressione cromatico-ambientale. Sono le Banchise, le Ekleipsis, le opere ottenute sagomando l’apparentemente facile membrana plastica, traslucida o colorata. In mezzo, tra le Quantità libere e i Polietileni, vi sono gli Essenziali: ne scrive puntualmente Zanchetta in catalogo.

Cicli di ricerca che, tutti, puntualizzano un continuo evolvere dell’indagine dell’artista, oramai approdato a una personale rielaborazione e consapevolezza di quel che significa “vedere attraverso”, come egli stesso scrive a fine anni Novanta, condensando in una pagina densissima, qui in catalogo pubblicata, tutta la storia del problema dell’oltrepassamento della superficie, che ha visto artisti e intellettuali battagliare nel corso della seconda metà del XX secolo. Scaccabarozzi si fa Caronte traghettante di questo problema, diventato opera nella sua indagine, nel XXI.

Ed è stata questa la sua lama a doppio taglio: compreso sino alle opere degli anni Settanta, perché più agevolmente ascrivibile a una stagione analitica e programmata, per i lavori dagli anni Ottanta al nuovo Millennio Scaccabarozzi chiede ancora non tanto lo sforzo, ma il brivido dell’immersione e della empatia da parte della critica e del mercato, esclusion fatta per alcuni casi illuminati che ne hanno capito il valore, e la potenza intesa come possibilità di superare e di anticipare i linguaggi, della sua indagine.

È il caso di questa mostra, meditata e attenta costruzione di un percorso di senso, che sceglie appunto di enucleare dal magma ordinato della ricerca di Scaccabarozzi le opere realizzate su fogli di polietilene, e di indagarne i diversi passaggi concettuali e creativi. Nel naos della loro creazione, ha nei decenni avuto libero e privilegiato accesso Natascia Rouchota, compagna dell’artista e sua unica erede, che dal 2010 ne dirige l’Archivio.

Osserva con attenzione proprio questa nuova fase, avviata dal 1983, che l’Archivio definisce e racchiude nella tipologia delle Quantità libere: quando l’artista, dopo aver analizzato sistematicamente tutte le possibilità di relazione e dipendenza tra misurazione e aleatorietà della pittura, approda all’idea che stendere una quantità di colore sia già fare pittura, liberandosi dai calcoli e da ogni forma evidente e obbligata di schema prestabilito.

“Io ti do una quantità di colore, mi dice, e tu metti gli altri. Ti do una certa quantità di verde su una tela o su un foglio di plastica trasparente, o su carta, e tu che cosa fai con questa quantità? cosa vedi? cosa provi? cos’hai da aggiungere?

Adesso copro il nero con del rosso e lascio che ai margini appaia un po’ del colore iniziale. Questo cosa ti provoca? che cosa ti ricorda? come funzionano su di te le mie scelte?
Cambio colore, cambio materiali, cambio il risultato, mantengo solo il verso della pennellata, da sinistra a destra, solo questo mantengo allo stesso modo, così come mi viene spontaneo di tenere e usare il pennello. [...] per tutti gli anni Novanta, Antonio lavora sull’idea delle QUANTITÁ. [...] Uno strato sottile di vernice QUANTO pesa nel mio spazio, QUANTO colore blu scuro devo caricare su un leggerissimo foglio di plastica trasparente per farlo diventare una cosa sola con la terra, come si relaziona la quantità, se si relaziona, con i miei desideri, con le mie intenzioni, la nostra felicità, la tristezza? Quanto funzionano su di noi il vuoto o i pieni, la trasparenza, la velatura, lo scuro, l’aperto, ciò che è evidente e ciò che è celato? QUANTO?”1. Rouchota scrive, ponendo a sua volta domande, come a sottolineare che un artista è tale, e Scaccabarozzi lo è stato, continua ad esserlo, solo quando il suo lavoro non smette di interrogare il mondo cui si rivolge.

Lo fanno le sue Quantità libere, che sin dal titolo sono, a ben vedere, un ossimoro: “quantità è qui non-quantitativa, possiede un’estensione concettuale, un fondo di energia, una ricchezza di espressione che fa sì che si trasmuti di continuo in qualità, in differenze qualitative. I lavori di Scaccabarozzi sono un invito a fare esperienza di tutta l’estensione della quantità in cui essa può fare a meno della determinazione matematica [...]”2, scriveva tre anni dopo la loro nascita Christine Brunner, tra le interpreti più attente dell’artista. Osserviamole: i fogli di polietilene trasparente sono campi traslucidi che accolgono il ductus della pennellata: il colore è steso a creare una forma vibrante, mutevole in base alla parete sulla quale è accolta, alla luce che lo attraversa, al corpo del fruitore che le si pone davanti e a sua volta la modifica con il suo peso, la sua ombra, la sua presenza.

Per un attimo o un’ora.
Tutto è mutevole, nel tempo dell’esperienza del visivo.
“[...] Qualità della quantità. Tema dominante nel lavoro di Scaccabarozzi è esattamente il convertirsi di questa in quella, o meglio l’unità indissolubile di materia e spirito, per usare un linguaggio obsoleto. Tappe antiche un decennio fa furono indagine intorno al concetto di misura e di prevalenze, muovendosi sempre entro un asse che dai rilievi della percezione procedeva alla costituzione di una forma.
Ma era ed è pur sempre, la forma, il risultato di quell’abbraccio fatale tra quantità e qualità. Tanti abbracci, tante forme. Le manifestazioni hanno esiti distinti: l’acquerello non è il pastello dei diari, né l’inchiostro su polietilene trasparente. La luce qui guizza là dove il vinilico cattura una luce che ha vinto sulla polvere ma ha perso così la sua nota squillante.
A Scaccabarozzi è essenziale questa morfologia narrativa. Per noi è essenziale la permanenza dello stile, una segreta riconoscibilità, nella morfologia degli accadimenti, il colore e tutto costituisce un colore: quantità liquida, pressione della spatola, velocità del gesto, energia,... la percezione di sé nel tempo”3.
L’acuta riflessione di Mauro Panzera, un altro pioniere della lettura dell’opera di Scaccabarozzi, data 1991. L’avventura degli Essenziali era appena avviata, l’artista mescolava il colore con il mastice, liberandolo anche dal supporto trasparente del polietilene: una vendetta, quasi uno sgarro, a tutto il problema dell’oltrepassamento della superficie.
Negli Essenziali tutto si risolve in una dichiarazione di autonomia assoluta: l’opera è, esiste, decide per sé.
Superata la metà degli anni Novanta, Scaccabarozzi torna al foglio di polietilene. Vi toglie la pennellata cromatica. Un’altra affermazione di indipendenza dell’opera, che ora si può piegare, estendere, far sorvolare e svolazzare, complice la sua resilienza, più che resistenza, plastica, e la leggerezza della sua installazione: fili di nylon, chiodi sottilissimi, o scotch biadesivo e removibile.
Non solo la sua leggerezza, trasparenza, versatilità affascinano Scaccabarozzi: nel polietilene egli vede il luogo in cui affrontare a un nuovo livello il problema della visione e del suo limite, il ragionamento sul doppio, sul recto e verso della pittura, la sua relazione ed estensione nello spazio.
Complici le sottili membrane plastiche, che semioticamente affrontano il tema del diafano, passando dal fantasma della pura trasparenza al traslucido che lascia filtrare la luce, ma non permette di vedere i contorni né le tracce delle figure dietro lo schermo, fino al torbido e all’opacità più impenetrabile.

Medium attraverso il quale avviene il processo di affioramento alla visibilità di qualcosa, diafano contiene la preposizione Δια (dia), designante ciò che separa o squarcia, e di conseguenza ciò che permette un’attraversata, un’apertura, uno sfondamento, di intravedere una interiorità, di portare alla luce qualcosa di nascosto.

A questa preposizione si unisce il verbo φαίνομαι (fàinomai), che presenta una grande ricchezza semantica, nel suo essere parente di φως (fos), luce: significa infatti brillare, illuminare, ma anche fare apparire, rendere visibile, portare alla luce ciò che è velato; ma anche fare conoscere, mostrare, annunciare, presentare, indicare; rendere manifesto un fenomeno fisico o un aspetto spirituale, per sua natura invisibile4.

Polietilene azzurro trasparente tagliato doppio. 1999  77x71 cm

 

Da qui il significato di διαφαίνομαι (diafàinomai), che significa essere appena visibile, iniziare ad essere visibile, e la διαφάνεια (diafàneia) che è, quindi, l’attitudine di un corpo a lasciarsi attraversare dalla luce.

“[...] È la stessa sensazione che provo visitando il tempio di Éfesto. Allorché gli giro intorno, le colonne lasciano intravedere il muro interno, e da certe angolazioni lo chiudono completamente, provocando così un misto magico di aria circolante e di ulteriore protezione a ciò che è custodito all’interno.

Accadeva cinque anni fa ad Atene”, scrive l’artista nel 19995.
Siamo di nuovo davanti al tempio greco.
Saliamo le alte scale che ci conducono nel suo cuore.
Alziamo lo sguardo, lo facciamo scorrere sulle vibranti e ieratiche superfici cromatiche di Scaccabarozzi.

Ancor più interno, è il loro naos.
Mi piace pensare che quello dei Polietileni sia diafano.

 

1 Natascia Rouchota, Antonio Scaccabarozzi Lemozione del metodo, Crocetti, Milano, 2012, s.p.
2 Christine Brunner, testo non titolato, in Antonio Scaccabarozzi-Quantità, catalogo della mostra, a cura di Christine Brunner, Krefeld, Galerie Hock, 7 giugno-12 luglio 1986, s.l., s.n., s.p.
3 Mauro Panzera, Quantità Essenziali, in Antonio Scaccabarozzi. Essenziali, catalogo della mostra, a cura di Mauro Panzera, Salò (Brescia), Centro d’Arte Santelmo, 3 marzo-15 aprile 1991, Grafiche Facetti 1991, s.p.
4 Cfr. Patrizia Magli, Έστι δή τι διαφανές. Esiste dunque del diafano, in Diafano. Vedere attraverso, a cura di Chiara Casarin ed Eva Ogliotti, ZeL Edizioni, Palermo 2012, pp. 17-24.
5 Antonio Scaccabarozzi, testo non titolato, in Matériau: couleur, a cura di Mel Gooding, catalogo della mostra, Montbéliard, Centre Régional d’Art Contemporain, 23 settembre-19 novembre 2000, s.p.

 

(Crediti fotografici: MIMMO CAPURSO)